Sentinelle

aprile 5, 2020 4 commenti

Così il semplice pastore che sorveglia le sue pecore sotto le stelle,
se prende coscienza del suo ruolo, scopre d’essere più che un pastore.
E’ una sentinella. E ogni sentinella è responsabile di tutto l’impero.
Terra degli uomini, Antoine de Saint-Exupéry, 1939

Mi è sempre piaciuta questa frase. E’ tratta da un libro per troppo tempo dimenticato, oscurato in giustamente dal successo planetario del Piccolo Principe. E’ una frase che, secondo me, ben si può applicare a questo momento difficile. Ci ricorda l’importanza della responsabilità individuale, di come spesso non sono i generali a vincere le guerre, ma anche e soprattutto ogni piccola sentinella che non abbandona il proprio posto, che continua a vigilare nonostante la consapevolezza che non passerà mai alla storia ma che si rende ugualmente conto dell’importanza del suo ruolo a guardia dei confini dell’impero.

Oggi, in questo momento, siamo tutti sentinelle chiamate a difendere l’impero dal nemico invisibile. Piccoli, innumerevoli soldatini che cercano di tamponare il tradimento degli imbecilli che non si rendono conto che, in questo momento, non rispettare le regole non significa sbandierare il proprio diritto alla libertà, rivendicare il diritto di ammalarsi. Sarebbe il minimo se questo non dovesse comportare il mettere a rischio non la loro inutile salute, ma quella degli altri, dei propri cari, di coloro che rischiano in prima persona come medici, infermieri, personale sanitario, soccorritori – in gran parte volontari – che in ogni caso correranno ad aiutare anche gli idioti che non meriterebbero attenzione e che sottraggono il posto ad altri che invece non hanno alcuna colpa.

Dovremmo averlo capito, ormai. Invece no.

Nel frattempo i gatti attraversano tranquilli le strade delle città svuotate dalle auto, gli uccellini hanno ripopolato gli alberi ai bordi delle tangenziali, i cervi si affacciano alle periferie. La natura ha iniziato a riprendere i suoi spazi, almeno per un po’. Poi tutto tornerà come prima. Forse.

O forse no.

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A volte ritornano (di nuovo)

marzo 18, 2020 6 commenti

Oddio, quanto tempo è passato dall’ultimo post!

E quanta polvere si è accumulata su questo vecchio blog. Chissà se là fuori c’è ancora qualcuno… Mi sento come in quei film nei quali, dopo la catastrofe o il dilagare del morbo, il protagonista si attacca a una radiotrasmittente per cercare nell’etere tracce di vita.

Comunque siam qui, di nuovo. Spinto dalla crisi, con i clienti che si sono sprangati in casa dopo aver chiuso le loro aziende, dimenticandosi perfino di pagare. Chi sopravviverà incasserà, forse, un giorno. E allora prendiamo secchio, guanti gialli e detersivo per spazzare via la polvere da questo spazio. Tanto, per quel ho da fare adesso…

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Il sergente nella neve

ottobre 4, 2017 5 commenti

“Il nemico” è una parola che non uso. Nel Sergente nella neve la parola “nemico” non c’è: parlo di “russi”, dico “loro” ma “nemico” mai. Per me quelli non erano nemici: quando ero in Grecia o sul fronte francese o in Russia non li consideravo nemici. Il nemico bisogna conoscerlo, bisogna sapere cosa ti ha fatto. Il nemico è uno che ti ha offeso o uno che ti ha fatto del male. Ma loro non mi avevano fatto niente, non mi avevano offeso e allora la parola nemico nei miei libri non c’è.
Mario Rigoni Stern (1921-2008), da una intervista, 2005

A volte, i libri, dovrebbero essere letti più volte. O almeno letti con un’attenzione sufficiente per capire che la loro ricchezza, oltre che nelle parole stampate, risiede anche nelle assenze, in quei termini che diamo per scontati ma che invece, miracolosamente, scopriamo essere assenti.

Di Mario Rigoni Stern è stato scritto molto in occasione della sua morte, anni fa, ma mi ha colpito soprattutto questo brano, riportato da alcune fonti, tratto da una vecchia intervista. Non mi ero accorto di questa particolarità leggendo, tanti anni fa, Il Sergente nella Neve. Lo noto adesso, colpevolmente, perché da questa parolina che manca dovrebbe essere ben chiaro lo spessore dell’uomo.

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Storia di A.

settembre 30, 2017 3 commenti

Si ha l’impressione che sia passata accanto a noi senza sfiorarci, spostando appena l’aria, leggera come un battito d’ali o un pensiero distratto. Granello dopo granello la polvere stava ricoprendo la sua anima e la luce dei suoi occhi sembrava ritrarsi sul fondo della pupilla, quasi a difendersi.

Non so spiegare perché questa morte mi colpisce più di altre. Forse perché è in qualche modo legata ai tempi passati, o forse perché giunge al termine di un declino lento e triste, lasciandosi alle spalle un sentiero cosparso di sogni infranti e serenità perduta per strada. O forse semplicemente perché è avvenuta prima di quanto la logica delle cose facesse supporre.

L’ho sempre conosciuta; veniva ogni estate. Le finestre della sua casa si spalancavano sulla piazza, coperte e tovaglie pendevano dalle finestre a prendere aria dopo l’inverno. Noi ragazzini ci chiedevamo perché quella ragazza bionda dagli occhi azzurri, di qualche anno più grande di noi,  lasciasse ogni estate la città più scintillante d’Europa  per seguire i nonni fino a questo paesino sperduto tra le montagne. Lei era gentile e, a differenza di certi suoi coetanei, non ci trattava male solo perché più piccoli. Ci piaceva, e quando nei pomeriggi caldi sedeva ad un tavolo sotto i tigli, in un angolo della piazza, a giocare a qualche strano gioco francese con i suoi, noi le sedevamo accanto, poco interessati alle sue carte molto di più alle sue minigonne e alle generose scollature che in quella valle erano una preziosa rarità. Finì per innamorarsi di un ragazzo del posto che non volle seguirla lontano dal paesino, e lei si adattò, chiudendosi in una prigione verde, fatta di montagne e di castagni. Cosa non si fa per amore. Estate e inverno rotolavano via uno dietro l’altro, in casa o in piazza, a chiacchierare e fumare le sue dannate sigarette. Come una principessa triste.

Ogni anno la trovavo più malinconica, cupa. Rimaneva il bel sorriso ma la luce nei suoi occhi si stava spegnendo. Mi diceva: “Sei sempre uguale, tu!”, ben sapendo che lo stesso non si poteva dire di lei. Era come se pensasse a voce alta guardandosi impietosamente allo specchio. I figli, che sono una benedizione per molti, non lo sono stati per lei. Solo problemi che non riusciva a reggere.

Quando mi hanno telefonato per dirmi che non c’era più mi sono accorto che non sapevo molto altro della sua vita.  Aveva tenuto per sé anche la sua malattia. E’ un’altra piccola fetta di vita che se ne va, un’altra gobba del mio giardino, più alta e più importante di quanto credessi.

L’Italia che mi piace

agosto 27, 2016 3 commenti

miseL’Italia che mi piace indossa divise di molti colori.

Ce ne sono di grigie e gialle, arancioni, azzurre e gialle, blu, rosse e molte altre. Lavorano in silenzio ogni giorno ma in certi momenti tutti si accorgono di loro e le luci si accendono sul loro operato. E allora ci si rende conto che quei ragazzi – perché ragazzi sono, indipendentemente dalla loro età anagrafica – lasciano il loro lavoro, le loro famiglie, la loro tranquilla quotidianità per andare ad aiutare il prossimo.

So bene che può sembrare retorica a buon mercato. Ma io li conosco bene quei ragazzi. Sono operai ed impiegati, studenti e disoccupati, professionisti e casalinghe. Ho il privilegio e l’onore di averli come amici, di condividere con loro la stessa passione, lo stesso impegno, la stessa divisa colorata. Di loro ci si può fidare, statene certi, perché loro, come altri, hanno compreso che ognuno, nel proprio piccolo, può fare qualcosa per rendere questo mondo un pochino migliore, condividendone la responsabilità. Sono come tante, piccole sentinelle poste a guardia di un’umanità minacciata e sofferente. E come scrive Saint- Exupéry ogni sentinella è responsabile di tutto l’impero.

Grazie ragazzi.

L’ultima domanda

luglio 23, 2016 2 commenti

Materia ed energia erano terminate e, con esse, lo spazio e il tempo. Perfino AC esisteva unicamente in nome di quell’ultima domanda alla quale non c’era mai stata risposta dal tempo in cui un assistente semi-ubriaco, dieci trilioni d’anni prima, l’aveva rivolta a un calcolatore che stava ad AC assai meno di quanto l’uomo stesse all’Uomo. Tutte le altre domande avevano avuto risposta e, finché quell’ultima non fosse stata anch’essa soddisfatta, AC non si sarebbe forse liberato della consapevolezza di sé.Tutti i dati raccolti erano arrivati alla fine, ormai. Da raccogliere, non rimaneva più niente.
Ma i dati raccolti dovevano ancora essere correlati e accostati secondo tutte le relazioni possibili.
Un intervallo senza tempo venne speso a far questo.
E accadde, così, che AC scoprisse come si poteva invertire l’andamento dell’entropia.
Ma ormai non c’era nessuno cui AC potesse fornire la risposta all’ultima domanda. Pazienza! La risposta – per dimostrazione – avrebbe provveduto anche a questo. Per un altro intervallo senza tempo, AC pensò al modo migliore per riuscirci. Con cura, AC organizzò il programma.
La coscienza di AC abbracciò tutto quello che un tempo era stato un Universo e meditò sopra quello che adesso era Caos. Un passo alla volta, così bisognava procedere.
LA LUCE SIA! disse AC.
E la luce fu …
L’ultima domanda, Isaac Asimov, 1956

Il racconto L’ultima domanda fu scritto da Isaac Asimov agli albori dell’era informatica. E’ uno dei suoi racconti più celebri e verte su una domanda, una delle tante, poste ad un computer di nome Multivac (gli informatici più attempati ricorderanno che una delle marche storiche al tempo in cui i calcolatori occupavano intere stanze era la Univac).

L’ultima domanda posta al supercomputer da due operatori un po’ alticci era se si poteva, e come, arrestare la decadenza dell’universo. Per milioni di anni il computer e i suoi discendenti continuano ad elaborare gli ultimi processi che la razza umana, ormai scomparsa, ha sottoposto loro. Finché non rimane che una domanda, l’ultima, l’unico motivo che ancora giustifichi il lavoro della macchina. Il finale è quello riportato sopra ma forse la domanda non è quella più probabile.

Non sarei affatto interessato a vivere per migliaia di anni ma sarei curiosissimo di poter vedere come va a finire questa avventura umana, fino a che punto questa specie riuscirà a progredire (non solo in senso scientifico) e se in qualche modo riuscirà mai a dare una risposta alla domanda più scontata, più difficile, più sensata che un essere umano possa porsi. Qual è il senso di tutto questo, del mio passaggio qui? La disperata domanda a cui ogni filosofia o religione ha cercato, in ogni tempo, di dare una risposta.

La ragazza e il violinista

giugno 19, 2016 6 commenti

Un piccolo tributo alla bellezza. Solo questo vuole essere.

Il video è ormai virale, riportato da milioni di condivisioni su Facebook, che ogni tanto riesce a donarci qualche piccola perla, quindi non vuol essere chissà quale novità per i miei quasi inesistenti lettori. Lo pubblico solo per non perderlo nella memoria infinita della rete, per saper semplicemente dove poterlo ritrovare quando avrò bisogno di guardarlo.

Il violinista di strada e la ragazza, che viene indicata come una turista di lingua araba, danno vita ad una goccia di bellezza ed eleganza, ad un attimo di condivisione sulla musica, splendida, di Yann Tiersen. Un’esibizione improvvisata, voluta da una voce fuori campo che invita la ragazza a vincere la propria timidezza e a ballare. Per settimane il violinista gentile si è esibito agli angoli delle strade della mia città, sempre elegante ed educato nel suo frac. Un giorno i vigili volevano allontanarlo perché suonava con l’uso di un amplificatore. I passanti si indignarono non poco. Il fatto finì sul giornale locale e la multa non gli fu mai elevata. E lui, per ringraziare, continuò a suonare ancora un po’ agli angoli delle strade. Poi sparì, così come era apparso. Slavomir, questo il suo nome, viene dalla Slovacchia.

 

Le arpe di Merlin

giugno 1, 2016 4 commenti

arpaTu giungerai alla grandezza, e può darsi che un giorno ti senta solo nella tua grandezza, senza amici in nessun luogo, ma solo fra coloro che ti rispettano, o ti temono o ti tengono in sacro terrore. Io ti compiango, ragazzo dai limpidi occhi dritti che guardano lontano, colmi di desiderio. Ti compiango e…Madre Celeste, come t’invidio.
La Santa Rossa, John Steinbeck, 1929

E’ sempre interessante rileggere a distanza di anni libri che sono stati, per noi, importanti.

Mi è successo con La Santa Rossa di John Steinbeck. Lo avevo letto tanti anni fa, da ragazzino. E’ la storia, molto romanzata, del bucaniere Henry Morgan. Inizia con il crescente desiderio di un Morgan adolescente di lasciare le valli del Galles, dove è nato, per rincorrere il richiamo dell’avventura, dell’oceano, del nuovo mondo. A nulla varrà l’opposizione della madre e la disperata tristezza del padre di fronte alla sua decisione. E’ un padre che comprende benissimo l’inquietudine del figlio perché anche lui la conosce, anche lui sognava le stesse avventure. E neanche il tentativo di farlo tornare alla ragione facendogli incontrare il vecchio veggente Merlin, che vive in una casa sui monti in compagnia delle sue arpe celtiche, riuscirà a distogliere il ragazzo dai suoi propositi. Merlin gli predirrà una vita di avventure e ricchezze, di conquista e violenza, ma anche profonda solitudine ed eterna inquietudine. Il giovane Henry lascerà la sua casa di notte, senza aver trovato il coraggio di salutare la ragazza che ama e questo diverrà il grande rimpianto della sua vita.

A quindici anni ci si riconosce nelle ragioni del protagonista, nella sua voglia di avventure, nei suoi sogni, perfino nel tormento, nella paura di esprimere i propri sentimenti all’amata Elizabeth. Trent’anni più tardi, rileggendo, si è invece più consapevoli delle angosce del padre, si comprende la sua speranza che il figlio rimanga vicino, al sicuro dai cannoni nemici e dalle malattie della giungla. Ma il padre conosce bene quel che suo figlio sta provando perché ci è già passato, perché i sogni del ragazzo sono stati i suoi sogni. Per paura lui ci ha rinunciato, il giovane Henry invece va loro incontro.

Tutti hanno fantasticato di una vita oltre l’orizzonte, tutti hanno ascoltato e trascurato i timori di chi li amava, nessuno ha dato ascolto al Merlin di turno. Così come più tardi molti si sono ritrovati a ruoli invertiti, ad indossare i panni del vecchio druido o di genitori ansiosi di fronte a desideri già conosciuti, a sogni già sognati.

Il libro è lo stesso, è il lettore che cambia. prima figlio poi padre. E la ruota continua a girare, mentre le arpe di Merlin restano inascoltate.

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Johnny I hardly knew ye

Maggio 29, 2016 1 commento

athyTutti la conosciamo, o l’abbiamo sentita almeno una volta, quella marcetta che spesso, nei film, accompagna i soldati americani di qualsiasi guerra nel loro ritorno a casa, salutati dalla folla e dalle ragazze che hanno lasciato ad aspettarli. E’ nota sotto il titolo di When Johnny comes marching home. E’ un canto allegro il cui testo e musica è stato pubblicato nel pieno della guerra di secessione americana.

Ma in realtà questa ballata ha ben altre origini. E’ arrivata negli Stati Uniti assieme agli emigranti irlandesi durante il massiccio esodo degli anni quaranta dell’Ottocento, in seguito alla terribile carestia di patate che aveva ridotto in miseria gran parte delle famiglie contadine in Irlanda. Molti di loro combatterono nelle fila dell’esercito nordista.

Eppure l’origine della ballata era ben altra. Sempre di guerra si tratta ma Johnny I hardly knew ye è una antica canzone che parla del ritorno al villaggio di Athy, contea irlandese di Kildare, di un soldato dell’esercito imperiale britannico. Ma il suo ritorno da una campagna nell’isola di Ceylon alla fine del Settecento, non è affatto festoso. A causa delle ferite e delle mutilazioni riportate la sua ragazza – come dice il titolo – lo riconosce appena.

Probabilmente è la prima canzone pacifista della storia. Vecchia di oltre duecento anni ma ancora terribilmente attuale.

Versione del gruppo folk Irish Rovers. Con il testo.

Bolle di sapone

Maggio 11, 2016 8 commenti

soapbubble151cv4Vorrei indietro la mia bicicletta rossa, quella con i pendagli di plastica colorata che dondolano dal manubrio, quella senza il parafango posteriore e i nastri adesivi colorati ai raggi delle ruote. Vorrei di nuovo i prati con le lucciole e le sere fredde in motorino per le strade di montagna, e le notti d’agosto sdraiato a contare le stelle cadenti perso negli occhi di quella lì accanto che pensava a tutti tranne che  a me.

Vorrei i miei amici di allora, le partite a pallone, i graffi della ghiaia sulle ginocchia. Vorrei il mio futuro, quando era ancora una promessa, una strada aldilà dell’orizzonte. Vorrei di nuovo il batticuore per un incontro e il profumo delle notti nel bosco con una  torcia in mano e al collo il fazzoletto da scout, Hemingway nella tasca dello zaino. Ma soprattutto vorrei sapere chi sono perché non mi riconosco più in quel mio io di allora che porto sempre in un angolo della mia coscienza. Sento che è lì che mi scruta, un antico me stesso che vede il suo futuro nei miei occhi e sembra più saggio dei suoi anni. Vorrei che la parete trasparente di questa bolla di sapone che separa il presente dal passato mi lasciasse passare per una volta, per avere la possibilità di liberarmi di qualche rimpianto, di accumulare qualche ricordo in più.

La stanza calda della malinconia che fodera il cuore è accogliente, custodisce scaffali con le pagine della mia vita, pezzettini di me stesso. Fuori il mondo preme ma le pareti sono forti e non lo lasceranno entrare. Per tutto il tempo che serve, per tutto il tempo necessario a concedersi un po’ di riposo dal presente. Il lusso di ricordare.

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